mardi 15 septembre 2015

 UNA PANORAMICA SULL'INTERO ANNO 1850
( la irreversibile frattura con la Chiesa )

 In quasi tutti gli stati italiani, da Roma a Firenze, dal Veneto al Regno delle Due Sicilie e in quelli minori, l'intervento degli Austriaci ha permesso di far ritornare sul trono i sovrani legati alla politica conservatrice di Vienna anno 1815; che da allora è la solita, una sola: reprimere ogni manifestazione repubblicana, annientare tutti quei movimenti che hanno come obiettivo l'indipendenza e l'unità nazionale.
Nella grande fiammata  che si era accesa nel  '48-49, i governi democratici che si erano formati prendendo il potere, avevano elaborato dei programmi ambiziosi, alcuni utopistici, altri così complessi che avrebbero richiesto molti anni per ottenere qualche risultato, anche se ci fosse stato la piena concordia dei vari gruppi.

Tutti avevano tentato di realizzare una politica di riforme a favore dei ceti popolari urbani che costituivano la base dei vari movimenti. Senza entrare nei particolari, gli 8 articoli dei Princìpi fondamentali, e i 69 articoli dei Dirittti e Doveri  promulgati nella Carta della  Repubblica Romana, di cui abbiamo riportato il documento lo scorso anno, come progetto riformistico  era più o meno identico a quello promulgato poi  in Toscana, a Venezia, in Sicilia, in Lombardia ecc. (che a loro volta avevano dentro un po' di tutto;  Costituzione Spagna 1812, la Francese 1830, la Belga, la Inglese)

Furono tassate le proprietà dei ricchi che prima non pagavano le tasse; furono abolite quelle più impopolari che colpivano i ceti più bassi; aboliti molti privilegi feudali;  si cercò di imporre una uniformità amministrativa, legislativa e fiscale: si promosse il diritto allo studio; si garantì la libertà di stampa e analogamente l'uguaglianza religiosa; si propose  di confiscare  terre feudali ed ecclesiastiche per distribuirle ai contadini, più  tante altre belle iniziative. Tutte le neo-repubbliche ovviamente introdussero il suffragio universale. Ma tutti,  più che realizzare qualcosa  crearono dei grandi laboratori e dei grandi progetti,  teorizzati ma poi data la brevità dell'esperienza, di tutti questi progetti non ne fu realizzato nessuno, o quasi. Ma  l'insuccesso non fu dovuto alla grande reazione degli stati reazionari, ma perchè  i movimenti repubblicani di ogni tipo (troppi)  non riuscirono a dare all'organizzazione una direzione unitaria. Nell'intero processo riformistico, in Italia venne a mancare la cosa più importante l'anima della maturazione nazionale. Ognuno (nella propria regione) cominciò a guardare il suo "cortile" e a voler comandare dentro questo piccolo "cortile". Tutti si atteggiavano a democratici (sognavano Mirabeau e Danton) ma avevano lo spirito di piccoli borghesi conservatori, incapaci di grandi vedute. Erano le stesse limitatezze che volevano combattere  nei  loro sovrani; anzi si dimostrarono spesso più incompetenti e incapaci.

Anche se bisogna dire  che  la "fiammata" pur così breve di queste democrazie, di un ora, di un giorno e di un mese, rappresentò l'inizio di un processo storico irreversibile. Alcuni affermano essere stato il frutto di una operazione quasi esclusivamente culturale, altri invece sostengono che è stata un'operazione di interessi economici. Eugenio Scalfari sostiene che questi ultimi  sono venuti dopo, da soli non avrebbero creato un bel nulla. Ma l'esperienza della Zollerverein in Germania ci dimostra proprio l'incontrario. Addirittura l'Unione doganale  fu creata dai Principi per evitare una unione politica, invece fu proprio lo strumento che maggiormente -in una forma autonoma- poi contribuì a unire la nuova borghesia e questa con il denaro condizionò una buona parte la vecchia politica (i Principi possedevano terre ma non avevano i denari in tasca come i ricchi borghesi).

L'unità nazionale  in Italia se per Cavour era una assurdità, e non ne faceva mistero, non è che gli altri demagoghi trascinatori di folla la pensassero diversamente. Ad esempio Daniele Manin, si lamenterà in seguito che Venezia  era stata lasciata sola, ma poi scopriamo che lui agli altri stati diventati democratici improvvisamente in un mattino, non chiese nessun aiuto; anzi  invitato  all'Assemblea Costituente romana, Manin rifiutò di  parteciparvi. Era convinto di poter far da solo - cioè di rimettere in piedi la vecchia Repubblica di San Marco, sperando un aiuto dai francesi, che però proprio nel '48-'49 cambiarono "musica".  Napoleone III non era più il giovane  rivoluzionario repubblicano anni '31, il carbonaro,  il cospiratore dello Stato Pontificio, ma era passato dall'altra parte della barricata,  preferendo il consenso dei cattolici e dei conservatori francesi per salire  al potere (riuscendoci!). E ora dirige la svolta reazionaria in Francia, è un  assolutista, schierato proprio con il papa al pari degli austriaci. E stato il suo esercito lo scorso anno a schiacciare  i repubblicani romani di Mazzini e di Garibaldi. A esiliarli. Lui a rimettere sul trono Pio IX. Lui a provocare la fine del repubblicanesimo italiano.

La stessa cosa  accadde in Toscana; GIUSEPPE  MONTANELLI,  leader dei democratici socialisti, uomo d'azione (fu lui a guidare l'attacco contro gli austriaci a Curtatone e Montanara) cacciato Leopoldo, formata una repubblica,  iniziò i primi concreti incontri per creare una grande assemblea costituente nazionale. Ma poi ricevuta la proposta di fare la fusione con quella romana,  a causa dei  forti dissidi interni (nei tre nuclei fondamentali: il mazzinianesimo, il liberalismo moderato, il liberalismo radicale,  più i monarchici filo-sabaudi) non solo i contrasti  impedirono e rifiutarono l'unione, ma non riuscirono nemmeno a tenere unita la stessa Toscana. Ogni nucleo (con dentro un po' di tutto)  voleva farsi la sua Repubblica (Firenze, Livorno, Pisa, Lucca, Siena - Come ai tempi dei Comuni nel XIII sec.). Fino a quando nell'anarchia assoluta, trasformatisi tutti in moderati, amanti dell'ordine e della disciplina,  non trovarono di meglio che richiamare sul trono il Granduca Leopoldo. (Poi ci ripensarono e fra 9 anni lo cacceranno di nuovo)

La stessa cosa sarebbe accaduta in Piemonte (fu l'unica a conservare lo Statuto) se non subentrava il giovane Vittorio Emanuale. Il più incompetente di politica, che invece con il suo proclama di Moncalieri, firmato solo da lui, poi lo scioglimento della Camera, si era subito imposto giurandoci perfino sopra su quella specie di costituzione che il padre aveva concesso pochi mesi prima di morire. Entrambe le due cose erano un severo ammonimento al Paese,  che va bene che era di sentimenti conservatori, ma secondo il Re rimaneva troppo inattivo e permetteva che una minoranza turbolenta arrestasse la vita dello Stato. Lui fece appello a queste forze. O reagire per far finire la pigrizia e la demagogia,  o non c'era altra scelta da fare: sospensione o addirittura abolizione dello Statuto. L'ammonimento era implicito, declinava ogni responsabilità per quanto poteva accadere; dall'interno ma anche dall'esterno qualora qualcuno avrebbe dato troppo fastidio agli austriaci che -realista com'era Vittorio Emanuele- disse chiaro e tondo "oggi come siamo messi militarmente ed economicamente, da loro dipendiamo". E militarmente non è che dovevano fare molta strada gli austriaci; e in questo caso non si sarebbero fermati a Novara e ad Alessandria. Se il Re veniva messo fuori gioco da chi voleva continuare la guerra, bastava a Radetsky fare un altro passo e occupava Torino.

D'Azeglio pur esitando, il giovane Re lo aveva aiutato, anche perchè le sue idee erano identiche a quelle di Vittorio Emanuele. D'Azeglio cercò qualche altro deputato per appoggiare il proclama e lo scioglimento. Un piccolo gruppo lo aveva anche trovato. Il deputato CAVOUR  (destra moderata, più monarchico dei monarchi, in apparenza liberale, ma deciso a far rispettare la inviolabile  proprietà borghese) gli aveva parlato solo qualche giorno prima che era a favore del trattato di pace, ma poi al dunque non volle compromettersi (già al suo primo intervento rivela il suo carattere), né con il governo né con gli avversari.
Decise alla fine solo il Re, che vivendo fuori dal palazzo non aveva certo imparato in caserma ad essere maestoso e nemmeno aveva imparato a fare il silenzioso. Nel diventare sovrano non fu tanto convinto che doveva diventare solo un simbolo dello stato. Quel "regna ma non governa", non lo aveva mai capito, ma neppure volle capirlo (almeno nei primi due-tre anni. Poi arrivò Cavour e iniziò a capire -dal "maestro"- che le due cose erano molto diverse. Le capì ancora meglio alla fine del 1859.
Il Re era convinto (forse dell'Inghilterra sapeva molto poco) solo di una cosa: che il sovrano datore della costituzione (suo padre che l'aveva concessa non ebbe nemmeno il tempo di farlo il sovrano, quindi non c'era nessun precedente, ma solo quella oscura frase d'altri tempi) potesse e dovesse intervenire nella vita politica più direttamente e vigorosamente. Lui doveva essere il maggiore e il migliore interprete della Costituzione. Lui doveva mettersi contro gli oppositori incompetenti e incapaci.
Le nuove elezioni avvennero sotto l'influsso di quel suo proclama. Nello scorso luglio gli elettori erano stati 30.000. A dicembre salirono a 80.000. A dire il vero aumentarono non per educazione politica ma perché si esercitò qualche pressione nei luoghi mirati, soprattutto nelle campagne, con l'aiuto di alcuni fedeli monarchici, debitori di qualche privilegio o proprietà. La maggioranza che ne venne fuori fu un blocco fedele alla monarchia, quindi pronti ad approvare in Parlamento tutto quello che proponeva il re.

Alla nuova assemblea per far accettare il criticato trattato di pace,  parlò Balbo; invitò a votare a favore aggiungendo (che profeta!) che più che approvare un trattato di pace quello era solo un armistizio  di dieci anni. Protestarono ancora, ma alla fine solo 17 deputati votarono contro.
In questo caso molto saggio, Vittorio Emanuele (l'uomo che era stato indicato sprovveduto e incompetente) aggiunse "Per essere libero e prospero, occorre che il Piemonte rimanga alcuni anni senza far parlare di se".  (Non conosceva ancora Cavour!)
Finiva così la crisi. Soddisfazione per Vittorio Emanuele e D'Azeglio, e per entrambi un accresciuto prestigio. Gli fu riconosciuto a Londra e non dispiaceva nemmeno a Vienna pur avendo sperato gli austriaci che la crisi allargandosi avrebbe tolto di mezzo il Re e quindi automaticamente lo Statuto.

L'abilità maggiore (astuzia, intuizione, logica ?) fu quella che pur in mezzo a reazionari e demagoghi il giovane re rimase padrone del campo. Ma anche  libero da impegni verso gli uni e verso gli altri, pur conservando legami con ambo le parti (è quasi lui a inaugurare il "trasformismo"). Insomma -diremmo- una politica prudente per non dire ambigua, ma anche perchè non si potevano prendere nè provvedimenti troppo energici, ma nemmeno si poteva passivamente ubbidire come dei miti servi agli austriaci, che dovettero alla fine pur addolorati, riconoscere che quest'uomo aveva carattere, il buon sangue tedesco della madre non mentiva. Quando gli fecero notare che tutti gli altri principi si erano adeguati alla restaurazione e avevano subito stracciato la costituzione che avevano concesso,  lui aveva risposto "Più gli altri principi violano i loro giuramenti e più io mi sento obbligato a mantenere il mio!". Non sapeva esattamente quello che faceva, ma intanto lo faceva. Mettendoci del genuino orgoglio che a molti non dispiaceva.

Gli austriaci nell'ammirare il carattere o forse convinti che in seguito avrebbero imposto altre condizioni (ed erano in grado di imporle) non si resero subito conto che stavano invece combinando un bel guaio. Vittorio Emanuele  si era imposto monarchicamente, aveva sostituito il parlamento come aveva promesso a Radestzki, ed era anche riuscito a far accettare la pace austriaca. Gli austriaci  si convinsero che avesse distrutto la democrazia. Invece il re così agendo l'aveva solo scompigliata, le idee erano rimaste, si erano sparse, diffuse, travasate in altri ambienti. Quelle idee che prima si erano appena affacciate solo nei banchi del Parlamento ora erano uscite fuori. Eliminato quello che sembrava il problema  più grosso, la guerra, dov'erano stati sconfitti, si concentrarono più liberamente sulle riforme. Si dedicarono su queste, in comune con chi ora sedeva in Parlamento.

La più importante era l'anticlericalismo. La Chiesa dopo il 1815,  in Italia, era ritornata a dominare il mondo sociale e politico piemontese oltre che i tribunali; e nella classe aristocratica e nella borghesia  con tendenze ormai volteriane, queste inclinazioni anticlericali erano  nei successivi anni diventate fortissime, quando lentamente gli ecclesiastici tornarono a dominare le scuole, le congregazioni rientrarono in possesso di molte proprietà e tutta la legislazione piemontese asservita aveva aumentato le condizioni di favore riservate al clero (immunità, privilegi, detassazione, ecc.). Negli ultimi anni di Carlo Alberto questa avversione era aumentata molto, fin troppo palese. Prima ci fu la cacciata dei gesuiti, poi ci si oppose di mandare l'offerta annua di un calice d'oro al papa. Infine era poi esplosa una totale avversione nell'allocuzione di Pio IX nel famoso '48.
Si lamentarono facendosi sentire, con atteggiamenti anche minacciosi. Ma Pio IX  bollò questi "critici" come una "classe di corruttori che si agita per dichiarare guerra alla Chiesa".
Ma non dimentichiamo che oltre che mettersi contro questa classe "rivoluzionaria" si era messo anche contro i monarchici, quando con la sua allocuzione (a favore dei "poveri cattolici austriaci") non solo abbandonò al suo destino Carlo Alberto, ma gli fece franare l'appoggio di tutti gli altri stati che erano accorsi ad aiutarlo.

Ed eccoci al dunque. Quello che era rimasto in comune tra il liberalismo piemontese e i più fedeli conservatori monarchici, era proprio l'anticlericalismo "democratico". E i liberali per riagganciarsi spinsero proprio verso questa direzione per ridiventare nuovamente i protagonisti, convinti che avrebbero trovato nel nuovo Parlamento molti alleati.

Premessa: Vittorio Emanuele, se dalla politica di palazzo era rimasto sempre distante, per quanto riguardava la chiesa e la religione era ancora più lontano dalle concezioni paterne. Era credente, ma non era come Carlo Alberto sempre straziato tra doveri religiosi e doveri politici. L'educazione religiosa piuttosto bigotta, Vittorio da giovane l'aveva ricevuta, ma presto nell'ambiente militare si era liberato dai grossi condizionamenti. Ma ora come re padrone, tutto il problema gli si presentò davanti abbastanza complesso. Sempre da uomo pratico cercò una specie di equilibrio tra i sentimenti religiosi del popolo e le necessità politiche. Un problema millenario.
Infatti la questione religiosa era molto più spinosa di quella politica. Perchè le due fazioni sia liberali che conservatrici -come abbiamo letto sopra- erano sulla stessa lunghezza d'onda. Per entrambi la Chiesa con i suoi tribunali ecclesiastici, i suoi privilegi, le sue immunità, era divenuta sempre più un'ingerenza nella politica e negli affari; e quest'ultimi non erano più quelli di un tempo. L'Europa stava correndo verso l'opulenza con la sua rivoluzione industriale. E in parallelo si stavano già formando "imperi" finanziari e industriali ignorando del tutto i vecchi poteri  teocratici.

Paradossalmente il trattato iniquo con l'Austria, i due poli politici li aveva tenuti divisi su una questione, ma li aveva riuniti su quest'altra: sull'anticlericalismo

La situazione quindi già si presentava di difficile soluzione, ma divenne ancora più imbarazzante quando Pio IX nel nominare il nuovo arcivescovo a Genova (sede vacante) si rivolse a Vittorio Emanuele, e nell'indicare  il suo prelato preferito (già monsignore a Cuneo, a molti sgradito)  non mancò di stigmatizzare i sudditi del re  "corruttori" anticlericali che si opponevano alle sue scelte e  invitava il Re a fornirgli appoggio per "dare una nuova e più sicura direzione alla Chiesa del Regno".
Ora il Re con chi si doveva schierare con il papa in nome della religione oppure schierarsi contro i suoi sudditi -addirittura delle due fazioni- schierati contro il papa?
Il 13 gennaio con forte realismo Vittorio Emanuele scrisse al Papa: "Dobbiamo agire insieme con la persuasione e coll'amore, non colla forza nè colla reazione. Il Paese si fa ogni giorno più forte. Repressione sì, ma solo chi oltrepassa i limiti della savia libertà".

Vittorio Emanuele  si limitò inoltre ad aggiungere che avrebbe curato l'alta missione della Chiesa nel suo regno purchè non ondeggiasse il clero tra le varie opinioni e le parti politiche del suo regno. Poi per convincere meglio il Papa inviò Balbo, ma fallì ogni intesa. Inviò poi Siccardi, ma erano lontani i punti di vista tra le due parti. In entrambi i due colloqui la curia aveva ripugnanza a trattare con un governo che si ostinava a rimanere costituzionale. Infatti le leggi ecclesiastiche  e i provvedimenti di polizia erano in antitesi con il primo articolo dello LO  STATUTO ALBERTINO che parlava di osservanza di culto,  ma non gli affidava un Foro legislativo, nè tanto meno quello esecutivo. Era  bene specificato negli altri articoli a chi dovevano andare i tribunali civili e penali. Su questi punti, il papa era ostile mentre le due fazioni anticlericali erano d' accordo. Questo il Re lo aveva già capito, ed ecco perché  voleva difendere quello che c'era scritto nello Statuto.

Si giunge al progetto di legge del 25 febbraio di Siccardi, che ribadiva -appoggiandosi allo Statuto- l'abolizione del Tribunale ecclesiastico, l'abolizione delle immunità del clero, l'obbedienza alle autorità costituite, il divieto di acquistare beni o accettare donazioni senza l'autorizzazione dello Stato. Per molti anticlericali le donazioni non erano spontanee, ma erano solo delle estorsione fatte a gente che era in punto di morte,  minacciandole di castigo divino e pene d'inferno i malcapitati.

Alla presentazione della legge Siccardi, la reazione fu terribile. Nel Parlamento c'erano le due fazioni favorevoli, ma c'erano tra di loro anche alcuni vescovi che alzarono le loro proteste, dichiarando che il Piemonte era indegno di una religione, l'avevano offesa; era il  Piemonte l'obbrobrio e l'onta  fra tutte le altre cattoliche nazioni; minacciarono le scomuniche.

La legge fu comunque approvata il 9 marzo con 150 voti contro soli 26 ! Significa che anche l'opposizione democratica votò a favore del governo.  I 26 voti erano del clero e dei filo-clericali di estrema destra.

Ma non era finita la lotta. La situazione si aggravò il 18 aprile. Il Nunzio pontificio per protestare contro la legge Siccardi abbandonò Torino. Contemporaneamente l'arcivescovo Fransoni  diramò una circolare a tutto il clero con le istruzioni circa il modo di comportarsi: levare regolarmente protesta contro le nuove disposizioni di legge. In pratica ci si metteva contro il Re e contro il Parlamento che aveva votato la legge.  Era dunque una chiara ribellione contro i poteri dello Stato, che fece scattare un procedimento giudiziario. Fransoni non comparì poi davanti ai giudici e venne arrestato. L'atto si presentò a molti impolitico, un errore, e per alcuni brutto e indecoroso. Era per alcuni questa precipitosa imprudente mossa, un falso rispetto dello Stato. Non era mai accaduto. Lasciò sconcertati.
Il 23 maggio Fransoni  fu condannato ("per le offese contro il rispetto dovuto alle leggi") con un mese di arresto e 500 lire di multa,  mentre il Re era assente in partite di Caccia nella Savoia..
L'ambiente era già confuso da entrambi le parti, quando il 5 agosto fu invece sconvolto. Ammalatosi gravemente il fratello del ministro Santorre Santa Rosa, l'arcivescovo condannato vietò ai suoi preti di somministragli i Sacramenti e vietò la sepoltura religiosa al defunto. Il governo aveva sfidato la Curia con i suoi strumenti, e la Curia sfidava il governo con i suoi.

Il gravoso fatto causò a Torino commenti e agitazioni molto gravi. Vittorio Emanuele nel frattempo rientrato, non criticò i magistrati che avevano condannato l'arcivescovo, ma anzi espresse un : "sentimento di disprezzo e di indignazione contro l'autore di una simile nefandezza, il quale dimentico dei sacri doveri di religione e di carità, che doveva ispirargli il suo santo ministero, scendeva a sì bassa ed irreligiosa vendetta"...."con questi mezzi, e questi esempi non  potremo mai costruire un felice e glorioso avvenire; non sono certo questi i mezzi per combattere i nemici".
D'Azeglio consigliò il Re di essere cauto. Si correva il rischio di far diventare  il Fransoni un martire. Per fortuna il popolo sulla questione fu abbastanza distaccato, il piccolo clero anche. Solo la passione politica aveva commesso questo errore, quindi i politici dovevano ripararlo. L'unica cosa era non ritornarci più sopra. Da sola tutta la politica ora avrebbe potuto trarre le sue conclusioni.  Bisognava seguire la linea indicata dal re: indignarsi e tirare diritto.

Anche se Vittorio Emanuele non aveva del tutto risolto il "problema dell'intera nuova  politica Piemontese", ma solo una questione.  E per le altre da solo non era più in grado di farlo. Il Parlamento non era più quello entrato pochi mesi prima. In maggioranza era monarchico ma non era più disposto  a dire sempre sì al sovrano e nemmeno aveva più paura di essere mandato a casa, aveva un altro carattere.

12 OTTOBRE - Morto il Santa Rosa, D'Azeglio chiamò al governo Camillo Cavour, un deputato della destra moderata, che cercava da tempo di entrare in un qualsiasi ministero. Era impaziente di mostrare le sue capacità, che nei discorsi in Parlamento (e sul giornale Il Risorgimento) manifestava. In ogni intervento metteva bene in risalto che lui aveva  frequentato i parlamenti esteri e soprattutto aveva visto come agiva quello inglese;  insisteva sulla necessità di promuovere una politica di movimento, destinata a togliere forze allo spirito rivoluzionario; mentre proprio da Londra, questo "spirito" in questo periodo era tornato (8 settembre) a diffondersi in Italia con il manifesto programmatico di Mazzini che  incoraggiava l'azione rivoluzionaria unitaria repubblicana.

D'Azeglio, Cavour lo aveva in antipatia, ma aveva perso un consistente appoggio (Balbo e Revel) della destra nella disputa ecclesiastica.  Mandò quindi giù il boccone amaro nel fare di malavoglia questa scelta.
Il re era della stessa opinione,  condivideva l'antipatia per il conte, ne aveva diffidenza, perchè gli sembrava ambizioso, intrigante, troppo dinamico e spregiudicato nei suoi affari. Detestava perfino suo padre, Vicario della Polizia, che agiva con un autonomo potere assoluto. "Pensateci bene - gli disse a D'Azeglio mentre si accingeva a chiamare Cavour- quello lì vi manderà tutti con le gambe all'aria". Quando poi in seguito Cavour  si prese anche il portafoglio delle Finanze, fu perfino sarcastico nonchè malizioso "Attenzione, quello lì, vi prenderà tutti i portafogli".

Cavour fu infatti abile già al primo istante. In questo clima di incertezza dei due, cercò l'appoggio del ministro della guerra Alfonso La Marmora, rompendo così gli indugi del Re e D'Azeglio. Gli fu quindi affidato -per la sua competenza nel settore-  il ministero dell'Agricoltura e del Commercio.  Cavour lasciò dunque la direzione del suo giornale e s'insediò nel governo.  Dal primo momento nel "muoversi" apparve subito come uomo superiore di fronte ai pigri colleghi (agitati ma inconcludenti); Cavour usciva spesso dalle sue competenze per ingerirsi in quelle degli altri dicasteri; lo stesso D'Azeglio con questa continua invadenza,  iniziò a sentirsi messo da parte, esautorato, preso a rimorchio (fino a quando un giorno disse "non ne posso più" e si ritirò).

Diffidenza o no, a Vittorio Emanuele a un certo punto faceva comodo un uomo così energico per dare una svolta. Utile quando gli si presentò il grosso problema di come purgare la magistratura troppo reazionaria; o quando  i rapporti con la Santa Sede si fecero molto tesi e lui non sapeva come riprendere le relazioni con il papa dopo l'episodio del Fransoni. Fino al punto che nessuno voleva accettare l'increscioso compito di andarsi a esporre con una missione a Roma temendo di uscirne poi con il prestigio a pezzi. La maggior parte diceva che era inutile.
E gli fece ancora comodo quando udì pronunciare in Parlamento, dall'impudente cattolico La Tour una frase molto sibillina, perfino inquietante: non esitò a ricordare il cattolico che "in più di un paese le guerre civili fossero state causate da contrasti religiosi: Enrico IV ne era caduto vittima". Era una minaccia?

D'Azeglio in questo clima, lui pacifico com'era, non avrebbe combinato un bel nulla. Inoltre la sinistra di Rattazzi con  la debolezza della destra iniziava a rivelare qualche ambizione, quella di ritornare al potere. In soccorso andò proprio Cavour che decise di accordarsi per dominare la situazione, o meglio crearsi un proprio partito; liquidare prima  il D'Azeglio con il Rattazzi, poi liquidare anche lui, infine rimanere padrone del governo. (Nel '59 poi invertì il ruolo: usò D'Azeglio per eliminare Rattazzi).

Rattazzi era un uomo grezzo,  un tedioso uomo di provincia, con un passato triste, uno dei più vivaci nemici dell'armistizio e della pace, aveva anche lui protestato piuttosto energicamente contro il proclama di Moncalieri, sembrava un democratico ma conservava (in una forma atavica) la devozione monarchica.

Cavour era invece di quell'aristocrazia arrogante, che addirittura insegnavano ai re  cos'erano le tradizioni che dovevano conservare e rispettare. E nel farlo ricordavano quindi ai Re che dovevano solo regnare ma non governare. Era già così in passato, ma dopo l'esperienza  in Inghilterra, Cavour ne era ancora più convinto; là era il governo a governare, non la monarchia. Negli ultimi anni lo fece capire  anche a Vittorio Emanuele, quando il re imparò a valutarlo come uomo prezioso, intelligente, un uomo sicuro per la monarchia. Anche se era insofferente quando Cavour pretendeva di guidarlo, come guidava tutti i ministri e i deputati, che si lamentavano dicendo di lui  "vuole tutto dire, tutto sapere, e tutto fare".

Siamo appena all'inizio di un lungo percorso, in cui troviamo fin dal prossimo anno Cavour il solo protagonista. Tutti gli altri delle comparse, alcuni dei veri burattini nelle sue mani.
La frase di Bayle l'abbiamo già citata: "I vari gabinetti, si formano e cadono a secondo degli accordi e degli intrighi di palazzo, praticamente senza alcun rapporto con ciò che succede in Parlamento" (Bayle St. John, The Subalpine Kingdom, London 1856, vol II, pag 57-58).

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